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Avvenire - 8, Novembre 2012
«Decimare» i malati terminali, l'Inghilterra ci pensa.
Il sistema Sanitario nazionale della Gran Bretagna sta facendo i conti con la
recessione e i primi a rimetterci sono i più vunerabili: gli anziani, i malati
terminali, le persone dichiarate morte ancor prima che lo siano, perché cercare di
salvarle o di farle stare meglio costa troppo. Qualche giorno fa uno dei
sottosegretari alla Sanità, il liberaldemocratico Norman Lamb, non ha esitato a
invitare i medici di base a compliare una lista dei loro pazienti che potrebbero
morire entro un anno. Una volta identificati, i malati terminali saranno chiamati a
un incontro col medico che gli chiederà dove preferiscono morire e se vogliono
scrivere o dettare un testamento biologico in cui danno il permesso ai medici di
sospendere medicinali e nutrizione quando si annuncerà la fine.
Lamb, che ha annunciato il progetto del governo a una recente conferenza sul fine
vita, ha detto di aspettarsi che per ogni medico almeno un paziente su cento entri
nella lista dei "terminabili". I motivi sono molto pragmatici: "Un quarto dei
letti negli ospdeali sono occupati da malati terminali - ha spiegato - e tra loro
quattro su dieci non richiedono cure mediche. Se queste persone fossero ammesse una
volta in meno al pronto soccorso la Sanità risparmierebbe un miliardo e 350 milioni
di sterline l'anno", circa un mliardo e mezzo di euro.
L'esponente del governo conservatore-liberale non ha specificato quale sarà il
destino dei malati finiti in quella che vari giornali britannici hanno ribattezzato
«lista della morte». Ma è molto probabile che saranno destinati al «Liverpool Care
Pathway», un protocollo adottato per la prima volta negli anni Novanta in un ospedale
della città portuale, e che dal 2004, dopo essere stato raccomandato dal National
Institute for Health and Clinical Excellence, è diventato pratica comune nelle
istituzioni sanitarie del Regno. Sulla carta «Lcp» si presenta come un programma di
fine vita per rendere l'ultimo periodo di un paziente più tollerabile, nel Paese che
è culla delle cure palliative. In realtà il protocollo ha finito col tradursi anche
nella sospensione di cure e nutrizione e nella somministrazione di forti sedativi a
persone classificate "vicine alla morte".
Ogni anno il sistema sanitario nazionale registra 450mila decessi nelle sue
strutture; di questi, 130 mila sono di persone sottoposte al "LCP" (Liverpool Care
Pathway o supportive care pathway) in modo proprio o improprio. Il Ministero della
Sanità, dopo le molteplici controversie sollevate dal programma, ha più volte tenuto
a ribadire che il Liverpool Care Pathweay non è equiparabile all'eutanasia, che i
pazienti che vi sono sottoposti vengono monitorati e possono essere tolti dal
protocollo se mostrano un miglioramento. Ma negli ultimi mesi sono fioccate sempre
più insistenti e numerose le denunce di famiglie che accusano i medici di aver
introdotto i loro cari nel programma quando in realtà questi non stavano affatto
morendo e di averne accellerato il decesso a causa della sospensione di cure e
nutrizione.
Mary Cooper, 79 anni, uno dei tanti esempi, è morta in giugno pochi giorni dopo il
ricovero al Queen Elizabeth Hospital di King's Lynn, nel Norfolk. La sua famiglia
sostiene di non essere mai stata avvisata del fatto che la donna fosse stata inserita
nel programma. "Ci hanno informati - denuncia il marito - quando ormai per Mary
era troppo tardi". L'ospedale dice di aver discusso la questione con la famiglia
e che questa era d'accordo. Ma secondo la figlia l'ospedale non è mai stato chiaro:
"I medici ci hanno detto che l'avrebbero aiutata a sentire meno dolore possibile,
ma non ci hanno spiegato esattamente quello che avrebbero fatto".
La settimana scorsa un uomo la cui madre è morta dopo essere stata sottoposta per
trenta ore al LCP al Western General Hospital di Edinburgo ha chiesto alla polizia di
investigare. Paul Tulloch è convinto che la madre Jean di 83 anni potesse
sopravvivere e sostiene di essere stato ignorato dai medici quando ha chiesto che
venisse ritirata dal protocollo. L'anno scorso un rapporto del Royal College of
Physicians ha rivelato che nel 4% dei casi i familiari non vengono informati della
decisione di sottoporre un paziente al LCP. E ora anche l'autorevole oncologo Mark
Glaser condanna il Liverpool Care Pathway dicendo che si tratta di «un sistema
corrotto e scandaloso che serve solo per liberare i letti degli ospedali occupati
dagli anziani e per raggiungere obiettivi premiati con più soldi».
di Elisabetta Del Soldato
La scia nera del protocollo di Liverpool
Patrick Pullicino, primario di Neurologia allOspedale dellEast Kent e una delle voci
più autorevoli nel dibattito sul fine vita in Gran Bretagna, ha più volte condannato
il "Liverpool Care Pathway", il protocollo nato con finalità umanitarie ma
divenuto unarma a doppio taglio. E solo qualche settimana fa, durante una conferenza
a Londra, ha dichiarato che troppo spesso i medici usano il programma, che dovrebbe
in teoria rendere più tollerabili le ultime ore di vita di un paziente, come se fosse
un surrogato delleutanasia. "Capita spesso - spiega - che i pazienti vengano
inseriti nel Liverpool Care Pathway senza una diagnosi corretta. E così molti
anziani, che con le cure appropriate avrebbero potuto vivere, in questo modo
diventano vittime di un decesso prematuro". "Prevedere con precisione il
momento della morte - continua il medico - non è scientificamente possibile, ma nel
caso del LCP è una profezia che si auto-adempie. E continuare a tollerare questa
pratica, divenuta ormai comune negli ospedali del Regno, è come accettare
l'eutanasia, né più né meno». Il neurologo racconta di essersi trovato a togliere
diversi pazienti dal programma: "Ricordo molto bene - racconta - il caso di un
signore di 71 anni, ricoverato per polmonite ed epilessia, che fu curato con successo
nonostante la sua morte fosse stata prevista nel giro di poche ore. Era un italiano
che parlava poco linglese ma era assistito da una moglie e una figlia molto
affettuose. Una mattina lo trovai quasi incosciente: mi dissero che lo avevano
inserito nel programma e che gli stavano iniettando morfina a intervalli regolari.
Dovetti combattere contro forti resistenze per toglierlo dal LCP. Dopo quattro
settimane fu mandato a casa e dopo quattordici mesi venne colpito da un nuovo attacco
di polmonite. Ricoverato in un altro ospedale, fu inserito nel Lcp e morì dopo cinque
ore". Certo, quei 14 mesi di vita in più hanno rappresentato un costo considerevole
per il Sistema sanitario nazionale, spiega il primario. "L'uomo aveva bisogno di
una sedie a rotelle, di una rampa d'accesso per la casa e di un'infermiera che lo
curasse quotidianamente". Al pari di lui, conclude il neurologo, "le persone
che sopravvivono al LCP diventano indesiderate perché costano troppo ai contribuenti
e occupano posti letto negli ospedali.
di Elisabetta Del Soldato

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